Molti di voi conosceranno Leonard Cohen soprattutto per la sua splendida Hallelujah. Che direste se vi dicessi che c’è molto altro?

Anzi, se vi dicessi che canzoni come Dance Me To The End Of Love, Anthem, Famous Blue Raincoat, Suzanne, Hey, That’s No Way to Say Goodbye, Joan of Arc, If It Be Your Will, Bird on the Wire, Chelsea Hotel #2, Who By Fire, Tower of Song, Everybody Knows, I’m Your Man, Lover Lover Lover, Sisters of Mercy, So Long, Marianne, First We Take Manhattan, The Future, The Gypsy’s Wife e The Partisan (per non citarne che alcune) sono ritenute tra le più belle dei nostri tempi e cantate e ricantate dai più grandi artisti di tutto il mondo?

E se ancora vi dicessi che Leonard Cohen, nato nel 1934, è ancora oggi un artista ancora al massimo della creatività con dischi che balzano al numero uno delle classifiche di mezzo mondo (Old Ideas del 2012 e Popular Problems del 2014), e  contengono canzoni in grado di emozionare i giovani come Nevermind (scelta come sigla di aperture di True Detective) o nuovi classici come Show Me The PlaceDarkness e Did I Ever Love You?

E per finire, se vi dicessi che il suo Grand Tour (2008-2014) ha registrato il tutto esaurito in ogni spettacolo?

Bene, se mi avete seguito sin qui, è probabile che leggerete anche oltre. Andiamo allora a scoprire i segreti di Leonard Cohen e della sua voce unica.

IN PRINCIPIO ERA SUZANNE

Cominciamo dalle fondamenta. Leonard Cohen, prima di essere un musicista, è un poeta. Un poeta vero, cioè uno scrittore che ha pubblicato diversi libri di poesie (e due romanzi). Talmente bravo da essere considerato uno dei più grandi poeti viventi di lingua inglese poco più che ventenne. Solo che…

Solo che ‘litterae non dant panem‘ (ossia ‘le lettere non danno da vivere’), e fin qui lo sapevamo già. Leonard non sopportava però l’idea che ‘litterae non dant mulieres‘ (ossia, ‘le lettere non danno donne’) e quindi ben presto ha abbracciato una chitarra e ha cominciato a comporre quelli che all’inizio erano semplici ‘accompagnamenti’ alle sue poesie. E insieme alla chitarra arrivarono le donne, molte e belle. Ma noi dobbiamo parlare di canzoni, vero?

Fino a quando Nick Cave e Jeff Buckley non diedero nuova vita a Hallelujah, dando avvio a quel percorso che oggi la rende forse la canzone più nota al mondo, Cohen era noto soprattutto per una canzone del 1967 – Suzanne. Suzanne naturalmente era una poesia molto prima di diventare una canzone (fu infatti pubblicata in Parasites of Heaven del 1966 ), ed era ispirata a una ballerina (e poi coreografa), Suzanne Verdal. Suzanne era bellissima e stranissima, ed era la moglie di uno scultore molto noto a Montreal, Armand Vaillancourt. Cohen non la ebbe mai, se non nelle sue fantasie poetiche prima e musicali poi. A cantare Suzanne per prima, e a rimanerne stregata, fu Judy Collins, nel 1966. Leonard Cohen l’avrebbe incisa solamente l’anno dopo, nel suo album d’esordio Songs of Leonard Cohen.

Suzanne fu un successo straordinario e del tutto inatteso. Cohen era un musicista ‘vecchio’, che esordiva a 32 anni, e con uno stile unico. A differenza di Dylan, che cavalcava la protesta giovanile e proponeva testi ‘sociali’ (e per questo rivoluzionari), Cohen aveva una nota più intima, un proprio linguaggio del tutto particolare, fatto di temi che sono cari alla sua opera e che presto impareremo a conoscere. Soprattutto, Cohen aveva dalla sua i testi. Testi ricercatissimi, da poeta laureato. E’ per questo che le canzoni di Cohen sono così ‘naturali’ da cantare: perché la metrica è impeccabile. Scommetto che non ci avevate mai pensato.

In Italia, Suzanne fu tradotta nel 1972 da Fabrizio De André, che la pubblicò in un 45 giri con la splendida Giovanna d’Arco sul lato B. Ma di Joan of Arc parleremo tra un po’.

SONGS OF LEONARD COHEN

Il disco d’esordio di Cohen è un capolavoro che contiene molte altre gemme, care ad ogni coheniano che si rispetti. Si pensi ad esempio a So Long, Marianne, una canzone sul suo tormentato rapporto con la modella svedese Marianne Ihlen, che Leonard aveva incontrato sull’isola greca di Hydra nel 1960. In quella che è una delle canzoni più amate dai coheniani doc (ai suoi concerti sembrano tutti aspettare solo il momento in cui Leonard attaccherà il suo ‘Come over to the Window…”) possiamo ritrovare già molti dei temi che segnano la poetica di Cohen. Come il bisogno assoluto di libertà, condensato nella figura del “Gipsy boy”. Come l’eterna lotta tra la pace dell’amore (‘You know that I love to live with you”) e quel bisogno interiore di nuove conquiste, nuove avventure (“it’s time that we began to cry and laugh about it all again”). Come l’ebraismo, che si insinua attraverso quella mancata preghiera agli angeli (dovere di ogni ebreo che si rispetti, che deve pregare per la salvezza di tutti) ripagata dall’oblio di vendetta degli angeli. Come il bisogno di amore, anche furtivo. Come la mancanza di coraggio, che in Cohen significa soprattutto non avere il coraggio di legarsi a una sola persona.

[… continua!]

L’ULTIMO COHEN
Lo so che abbiamo fatto un salto triplo mortale, saltando praticamente tutta la carriera dell’artista di Montreal, ma oggi il mondo ha saputo che Leonard Cohen è morto e ho pensato che fosse giusto integrare almeno un po’ questa pagina. E’ un periodo di lavoro intenso per me e quindi non sono riuscito a scrivere tutto quel che avrei voluto, ma almeno vi presento la triade conclusiva di Leonard. Vi chiedo scusa in anticipo se non vi sembrerò granché coerente: l’idea è semplicemente presentarvi il lavoro della parte conclusiva della vita di Cohen, che per certi versi è forse il migliore della sua intera produzione.

A inizio 2012, Cohen pubblica il primo dei tre album della sua maturità. Ha ormai 78 anni, ma artisticamente è più vivo che mai. Old Ideas diventa, incredibilmente, il suo disco più venduto di sempre. Incredibilmente non perché non lo meritasse, ma perché sono pochissimi gli artisti che siano riusciti a toccare il proprio picco artistico passati i 70 anni. La prima eccezione che mi viene in mente è Louis Armstrong, con la sua meravigliosa It’s a Wonderful World. Ma qui siamo ad altri livelli: non è una semplice canzone, ma un trittico di album completamente nuovi e diversi dalla sua produzione precedente. Old Ideas marca l’inizio della feconda collaborazione con Patrick Leonard, che scriverà per Leonard alcune delle canzoni più belle dell’ultimo periodo. Old Ideas tratta i temi tipici di Leonard, eros e tanatos, e la morte comincia a essere una solida compagna di viaggio già in Going Home: ‘Vado a casa senza le mie pene, vado a casa tra qualche giorno, vado a casa dove si sta meglio di prima’. Cohen si avvicina alla morte ma è più leggero, sta cominciando a fare i conti con sé stesso. Al punto che si sente finalmente in grado di affrontare il blues, come nella splendida Darkness. Vivere, come conquistare una donna, è come bere da una coppa avvelenata che porta con é il male. Il male oscuro di vivere. In Show me the Place torna la commistione erotico-religiosa di Hallelujah, in quella che è forse la canzone con maggior gravitas del disco. Cohen torna sul rapporto di coppia nella ritmata Different sides, un inno al rimanere sé stessi anche in amore e a non cercare sempre di imputare all’altro il fallimento. D’altro canto, con l’amore Leonard ha sempre fatto fatica. Attratto dalla donna prima ancora che dalle donne, lascia che la sua ex-compagna e musa Anjani scriva per lui la musica di Crazy to love you, un piccolo gioiellino in cui confessa che nonostante la vecchiaia quei folli desideri sono ancora in lui.
Popular Problems esce nel 2014, ed è un po’ una sorpresa. Cohen ha sempre avuto tempi biblici nel comporre, ma ora sente il bisogno di dire tutto quel che può. Sente il tempo che scorre. Il disco è più leggero del precedente, nonostante le ‘bibliche’ Samson In New Orleans e Born in Chains (gestata per decenni).  Slow sembra quasi una dichiarazione di poetica, con Cohen che afferma dia ver sempre avuto una predilezione per i tempi lenti – e non solo ora che la vecchiaia incombe. D’altro canto, Cohen la vecchiaia la ha affrontata correndo, con un tour quinquennale che lo ha visto cantare per oltre 3 ore a notte in tutti i palcoscenici più prestigiosi del mondo, letteralmente inginocchiandosi davanti alla sua band e al suo pubblico. Come già in I’m Your Man, la musica di Cohen strizza gli occhi al contemporaneo e la splendidamente ossessiva Nevermind si impone tra i giovani perché viene scelta per una serie televisiva di successo, True Detective. Il disco, onestamente, non ha un grande filo conduttore – Cohen sembra semplicemente voler dar vita a molte (belle) canzoni che sentiva avessero dignità di esistere. Torna sul Blues, con la apocalittica Almost Like the Blues, e torna anche a Nashville con le deliziose My Oh My (ancora sulla caducità dell’amore) You Got Me Singing, un disperato inno alla speranza. E mentre la canticchi, non puoi far a meno di pensare a Leonard che esce dal palco saltellando alla vigilia dei suoi 80 anni…
A dicembre 2014, esce Live in Dublin, un triplo album dal vivo che è una specie di documentazione dei concerti dal vivo del Grand Tour. Ma è nel 2015 che esce uno tra i suoi live più belli: Can’t Forget – A Souvenir of the Grand Tour. Il disco ha un tono intimistico, quasi da teatro. Dal punto di vista interpretativo, Cohen è al meglio e la scelta ricade su canzoni leggermente meno note del suo repertorio – tra cui alcune cover (I Can’t Forget e La Manic)  due inediti,  Never Gave Nobody Trouble e Got a Little Secret. Il risultato è un capolavoro che ha deliziato gli ammiratori più eruditi del Maestro.
Si arriva così al 2016 e al tanto atteso You Want It Darker. Tutti sapevano che Leonard stava lavorando a un altro disco, e forse anche a un libro di poesia, e l’attesa è valsa tutta la pena.

YOU WANT IT DARKER
You Want It Darker, uscito il 21 ottobre 2016, è dunque il testamento spirituale di Cohen. Lo avevano detto in molti all’uscita del disco, e fino ad oggi tutti i coheniani doc hanno sperato che non fosse così. Eppure il disco è inequivocabile. Prendiamo la canzone di apertura, You Want It Darker per l’appunto. Cohen si rivolge a Dio con le parole di Abramo, “Hineni” – sono pronto, signore.
Ma non questo tono profetico a rendere il disco diverso dagli altri. E’ che Cohen problematizza ulteriormente il suo rapporto con Dio. Non più  la sottomissione senza compromessi di If It Be Your Will, non la ribellione soffocata di Hallelujah. Ora Cohen, in particolar modo in Seemed the Better Way, mette in discussione tutto. E lo fa anche nella canzone che in molti ritengono quella portante del disco, Treaty, dove Leonard forse si rivolge direttamente a Gesù, denunciando la differenza inconciliabile tra l’amore dell’uomo e l’amore divino – e dicendo senza mezzi termini che non è più tempo di acqua e vino. Cohen sembra voler cantare la disillusione di Dio, il crollo di una certezza che lo ha accompagnato per tutta la vita (lui ebreo, buddista e ‘ammiratore’ di Gesù). In Steer Your Way definisce ‘favole la Creazione e la Caduta – per un uomo che ci mette anni a vergare una parola, la scelta non può essere casuale. E’ una specie di rinascimento.
Cohen si accetta ormai, con tutte le sue debolezze e le sue miserie. Ed è pronto a morire (ricordate? Hineni!). In Leaving the table confessa di aver abbandonato la partita dell’amore (‘la belva abietta è domata’), ma afferma anche di non aver più bisogno di un motivo per essere diventato quel che è, e di non aver bisogno di un perdono. Della depressione con cui ha convissuto larga parte della vita, insomma, non c’è più traccia. E infatti Cohen si diverte anche nel disco, come in Traveling Light, la canzone più leggera del disco – certo una delle più belle. Ancora una volta, Leonard guarda indietro alla sua vita, al suo rapporto di coppia – ai suoi rapporti di coppia. E ammette di aver viaggiato leggero, senza pesi, incontrando più di una persona – viaggiando leggero proprio come con la compagna cui idealmente si rivolge. Ma Cohen sa che la strada porta di nuovo da lei (a Marianne? fa piacere pensarlo) e rivendica il diritto di non dimenticare quel che è passato nel mezzo.